giovedì 30 luglio 2015

India: eseguita la condanna di Yakub Memon

da Il Manifesto
di Matteo Miavaldi

Yakub Memon, indiano di reli­gione musul­mana, è stato impic­cato ieri mat­tina, all’alba del suo 54esimo com­pleanno, dai boia del car­cere di Nag­pur, in Maharashtra.

«Giu­sti­zia è stata fatta» ha com­men­tato Mukul Rohatgi, capo dell’accusa di Stato nomi­nato dall’amministrazione Modi, «al col­pe­vole è stato dato pieno accesso al sistema giu­ri­dico, è stato con­dan­nato per un cri­mine effe­rato»: rife­ri­mento alle peti­zioni indi­riz­zate alle mas­sime cari­che isti­tu­zio­nali — nell’ultima set­ti­mana, tre alla Corte suprema, una al gover­na­tore del Maha­ra­sh­tra, una al pre­si­dente della Repub­blica – in cerca di una gra­zia «in extre­mis». Tutte respinte, l’ultima a poche ore dall’impiccagione.

I reati con­te­stati a Memon sono cospi­ra­zione, deten­zione ille­gale di esplo­sivi e armi da fuoco, con­corso logi­stico e finan­zia­rio nell’attentato più san­gui­noso della sto­ria dell’India indi­pen­dente. Nel marzo del 1993 tre­dici bombe esplo­sero nella città di Mum­bai, ucci­dendo più di 270 per­sone. Un atten­tato che, pochi mesi dopo, le auto­rità indiane avreb­bero potuto ricon­durre al ter­ro­ri­smo paki­stano in com­butta con la mafia locale di Bom­bay, legata all’estremismo musul­mano di Isla­ma­bad e a (una parte?) dell’Inter-Services Intel­li­gence (Isi), i ser­vizi paki­stani. I due respon­sa­bili dei «Bom­bay bom­bings» sono Dawood Ibra­him, capo della mafia di Mum­bai, e «Tiger» Memon, mala­vi­toso di Mum­bai e fra­tello di Yakub, pro­tetti a Kara­chi dagli uomini dell’Isi. Come lo sap­piamo? Ce l’ha detto Yakub.

La fami­glia Memon, avver­tita da «Tiger» dell’imminente catena di esplo­sioni, qual­che giorno prima dell’attentato parte per il Paki­stan, via Dubai, accet­tando la pro­te­zione dell’Isi dalla rap­pre­sa­glia delle auto­rità indiane. Yakub Memon, pen­tito della pro­pria scelta, decide di tor­nare in India per col­la­bo­rare con la giu­sti­zia e ten­tare di togliere dal pro­prio nome lo stigma del «terrorista».

Secondo i memo­riali dal car­cere di Yakub, il pro­prio avvo­cato e Tiger gli scon­si­glia­rono il ritorno in patria. Yakub, lau­rea breve in eco­no­mia e com­mer­cio e com­mer­cia­li­sta pra­ti­cante, è un meto­dico: riem­pie una vali­getta di dati, nomi, indi­rizzi e infor­ma­zioni da con­se­gnare alle auto­rità in cam­bio di un accordo per una ridu­zione di pena per lui e parte della sua fami­glia, e si con­se­gna alla poli­zia del Nepal. I nepa­lesi, infor­mal­mente, lo tra­sfe­ri­scono in Bihar e lo con­se­gnano agli uomini del Research and Ana­ly­sis Wing (Raw, la Cia indiana). All’apparenza tutto sem­bra andare secondo i piani di Yakub, che viene arre­stato, men­tre altri nove mem­bri della sua fami­glia, com­presa la figlia appena nata, ven­gono aiu­tati a rag­giun­gere l’India dai ser­vizi indiani.

Gra­zie alle infor­ma­zioni di Yakub, le auto­rità indiane sono in grado di deli­neare il per­corso di uomini, esplo­sivi e soldi che dal Paki­stan, attra­verso Dubai, avreb­bero per­messo i «Bom­bay bom­bings». Yakub Memon entra in car­cere nell’agosto del 1994 da pen­tito. Il 27 luglio del 2007, dopo tre­dici anni, viene con­dan­nato per «cospi­ra­zione» alla pena di morte, assieme ad altri nove mem­bri della sua fami­glia. La pena capi­tale sarà com­mu­tata in erga­stolo per tutti, com­presi chi aveva piaz­zato le bombe a Bom­bay, tranne per lui, sem­pre pro­fes­sa­tosi innocente.

Secondo la difesa, i reati impu­tati a Memon sareb­bero «pro­vati» solo gra­zie alle con­fes­sioni di altri pen­titi. Il pro­cesso, fuori dal tri­bu­nale, è di carat­tere poli­tico. Ambienti della destra nazio­na­li­sta indiana vogliono il san­gue musul­mano di un Memon per ven­di­care i morti di Mum­bai, città con­trol­lata dal Bha­ra­tiya Janata Party (Bjp) con la for­ma­zione para­mi­li­tare ultrain­dui­sta del Shiv Sena (let­te­ral­mente, l’esercito di Shi­vaji, re guer­riero mara­thi del dicias­set­te­simo secolo).

Dopo una cam­pa­gna d’odio anti-musulmano del Bjp nel 1992 e cul­mi­nata nella distru­zione della moschea Babri ad Ayo­d­hya, in Uttar Pra­desh (da una folla di ultra­na­zio­na­li­sti), foco­lai di pro­te­sta da parte della comu­nità isla­mica locale si acce­sero in tutto il paese. Anche a Bom­bay, dove le squa­dracce del Shiv Sena, tra il dicem­bre del 1992 e il gen­naio del 1993 rastrel­la­rono i quar­tieri isla­mici della città nei pogrom noti come i «Bom­bay riots»: 900 morti in due mesi, di cui oltre 700 musulmani.

Due mesi dopo, le bombe di Dawood Ibra­him e Tiger Memon sareb­bero state la san­gui­nosa rap­pre­sa­glia dei cri­mini dell’«hindutva», l’ideologia supre­ma­ti­sta hindu del Shiv Sena. I giu­dici per i «Bom­bay riots», avreb­bero con­dan­nato tre mem­bri del Shiv Sena a un anno di car­cere per «isti­ga­zione all’odio». Yakub Memon, dopo 21 anni di car­cere, è stato ucciso ieri dalla giu­sti­zia indiana. La vicenda di Yakub Memon è una scon­fitta per lo stato di diritto, per l’autorevolezza delle isti­tu­zioni e per l’indipendenza del sistema giu­ri­dico dalla «vox populi» indiana. Una cata­strofe chia­mata giustizia.

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