giovedì 11 giugno 2015

Le donne nel braccio della morte


DI ANNA VOLPICELLI

da La Repubblica D

Secondo una ricerca condotta dal Death Penalty Information Center, lo scorso anno sono state condannate in America alla pena capitale 57 donne e quasi tutte per lo stesso movente: delitto di amore o di passione. Un atto che, secondo psichiatri e criminologi, è dovuto spesso a un passato di abuso minorile o da parte del partner. Di loro, però, si sa poco o nulla: una volta varcata la porta di un istituto di reclusione penale con la sentenza di morte, si perde infatti qualsiasi tipo di contatto, che viene ristabilito solamente il giorno dell'esecuzione


Le donne nel braccio della morte Su prisoninmates.com, il social network statunitense che mette in comunicazione i carcerati con il resto del mondo, Christine Katler, detenuta numero 73491 nel carcere di Las Vegas, arrestata per avere commesso frodi e diversi crimini legati all’appropriazione di identità altrui, scrive in un post: “Hai mai veramente provato a cercare mille modi per aiutare la tua famiglia, gli amici o te stessa e perdere il senso di ciò che è giusto o sbagliato? Io l’ho fatto e ora, come un bambino messo in castigo, ho avuto modo di esaminare i miei errori e le mie azioni. E sono pronta per una seconda opportunità”. Come Christine, sono numerose le donne rinchiuse nelle prigioni americane in cerca di un dialogo esterno. Fra queste, però, nessuna è condannata alla pena di morte.  All’interno del social network, infatti, nella categoria “death row”
(braccio della morte) il vuoto: nessun volto, nessun segno. Solo una pagina bianca. I condannati alla pena capitale hanno pochissime possibilità di ricevere chiamate, lettere o di partecipare a dialoghi virtuali. 

A soffrire di questo silenzio non sono solo le prigioniere, ma soprattutto i familiari. Una volta varcata la porta di un istituto di reclusione con la sentenza di morte, si perde infatti qualsiasi tipo di
contatto, che viene ristabilito solamente il giorno dell’esecuzione.

Secondo una ricerca condotta dal Death Penalty Information Center (deathpenaltyinfo.org), nel 2014 sono state condannate
all’esecuzione capitale 57 donne e quasi tutte per lo stesso movente: delitto di amore o di passione. Di queste sono morte con iniezione letale 14. Recente e discusso è il caso di Kelly Renee Gissendaner, 46 anni, che è diventata la prima donna a essere sottoposta alla pena di morte in Georgia dalla Seconda Guerra Mondiale. In un triangolo amoroso, in una notte con l’amante e il marito, la donna ha chiesto all’uno di uccidere l’altro. Lisa Coleman è morta nel 2014 per aver ucciso il marito e i due figli in Texas, famose sono state le sue ultime parole, prima di chiudere definitivamente gli occhi “I am done”, (è finita). Fra gli Stati americani con più sentenze al primo posto spicca sicuramente il Texas, al secondo l’Oklahoma e a seguire l’Arizona. Qui, per esempio, nel 2014 sono state condannate ben cinque donne: fra queste Shawna Forde, accusata di aver ucciso due persone a sud ovest di Tuscon, e Marissa DeVault, arrestata per aver ammazzato il marito con un martello.

In generale, i casi di pena di morte legati al mondo femminile sono molto più rari e complicati da giudicare e c’è sempre una riluttanza da parte della giuria a emettere una sentenza di morte. Ci sono stati persino casi in cui i giurati non riuscivano a decidere se condannare alcune donne a morte o all’ergastolo. Secondo le più recenti
statistiche, a partire dal gennaio 2013, solo 63 su 3.125 detenuti nel braccio della morte a livello nazionale erano di sesso femminile, circa il 2 per cento. "Se è una donna a essere sul banco degli imputati, i pubblici ministeri devono in qualche modo snaturarla, cioè non guardarla come appartenente al genere femminile, prima che possano emettere un giudizio", ha detto ad azcentral.com, magazine online dell’Arizona, Victor Streib, avvocato e professore di legge in pensione, collaboratore di The Death Penalty Information Center di Washington DC. "Se una donna non viene vista come una madre, ma come una prostituta è più facile da condannare, perché non rappresenta la maggioranza del sesso femminile”. Dal 1976, anno in cui è stata reintrodotta la pena di morte negli Stati Uniti, organizzazioni e singoli individui, e le stesse ex carcerate si sono battute per la sua abolizione.

In Italia una delle battaglie più sentite è stata messa in atto dalla comunità di Sant’Egidio di Roma, movimento di laici impegnato nella comunicazione del Vangelo e nella carità, e dal suo portavoce Mario Marazziti. Sessantadue anni, presidente del Comitato per i Diritti Umani della Camera dei Deputati, coordinatore della Campagna Internazionale contro la pena di morte, ha cofondato nel 2012 la Coalizione Mondiale contro la Pena Di Morte. Impegnato in un tour di promozione del suo nuovo libro “13 Ways of looking at death penalty” (solo in lingua inglese, Seven Stories Press, 2015), è arrivato anche a San Francisco. “Non ho scritto questo libro per insegnare, o per dire che l'Europa, il primo continente al mondo per essere una zona franca per le esecuzioni nel mondo, è 'meglio' dell’ America”, ci dice Marazziti. “Ora che New Jersey, New Mexico e Illinois hanno abolito la pena di morte è invece il momento dell’America”. Tra le ex condannate in prima linea ci sono invece Cathy Woods, Georgia, arrestata per sbaglio, e dopo 30 anni rilasciata, e Debra Milke, tedesca, condannata alla sentenza capitale, da poco tornata in libertà, dopo aver trascorso 22 anni in carcere in Arizona con l’accusa di avere complottato l’omicidio del figlio Christopher. In una sua ultima dichiarazione apparsa su abcnews.com la donna ha dichiarato che la cosa peggiore di perdere un figlio è quella di essere accusata di averlo ucciso. La donna è uscita di prigione su cauzione e lo scorso marzo il giudice Rosa Mroz le ha anche permesso di togliersi la cavigliera elettronica utilizzata per il monitoraggio a distanza, rendendola di nuovo una persona libera a tutti gli effetti.

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